domenica 27 aprile 2008

TUM TUM TUM

TUM TUM TUM
Il coniglio con gli occhiali e l’orologio nel taschino faceva rimbombare il lungo bastone sul pavimento lucidato.

-Sì, è stato invitato anche il coniglio di Alice, ma non vi turbate, non avete sbagliato posto: è proprio qui che assisterete alla rappresentazione che tanto aspettate, e la presenza di un ospite così straordinario dimostra soltanto la valenza di questo evento, unico nel suo genere. Quindi sistematevi bene. Se avete bisogno di soffiarvi il naso, abbiamo pagato il coniglio anche per questo-

TUM TUM TUM
SSSSHHHH


-Gli attori stanno entrando in scena, ed il coniglio dice di far silenzio. Come se non lo sapessimo! I conigli oggigiorno si credono chissà chi, solo perché loro hanno un pelo morbido e si spacciano per vegetariani-

Un paggetto che sembra uscito da un librone elisabettiano si pone al centro della stanza illuminata solo da un faro centrale.

SIGNORE E SIGNORE
(una voce fuori campo senza faccia, senza nome, appare da sotto una mattonella. Il pubblico non sembra accorgersene: SIGNORI. SIGNORE E SIGNORI!)

Due macchie bordeaux appaiono sul viso tondo del paggio, che deglutisce. Una mosca sorvola le prime file del teatro. Un bimbo starnutisce. Il bigliettaio convalida l’ultimo posto disponibile. La figlia del bigliettaio esce orgogliosa dal teatro e appende all’ingresso un cartellone: SOLD OUT. Il paggio riprende.

SIGNORE E SIGNORI
BAMBINE E…BAMBINI
BEH, ANCHE VECC…ANZIANE ED ANZIANI.
GRAZIE DI ESSERE QUI E… NON DA ALTRE PARTI.
ANZI… GRAZIE DI ESSERE QUI.

(L’omino senza faccia e senza nome riappare dalla mattonella mostrando uno sguardo malevolo. Stringe gli occhi e inarca le sopracciglia folte. Solo il paggio se ne accorge).

LA RAPPRESENTAZIONE CHE VI PROPONIAMO STASERA
E’ TRATTA DA UNA STORIA VERA. VERA COME SIETE VOI,
IO, E ANCHE IL CONIGLIO QUI DI FIANCO A ME.
PARLA DI QUELLA COSA AL MONDO A CUI TUTTI ANELIAMO:
LA FELICITA’, CHE A VOLTE CI SEMBRA TANTO LONTANA, MA IO DICO CHE E’ TALMENTE VICINA CHE A STENTO LA RICONOSCIAMO. ALLORA GUARDIAMO PIU’ IN LA’, E CI ACCORGIAMO CHE PIU’ IN LA’ NON E’ SEMPRE BELLO, CHE FORSE E’ MEGLIO DI QUA, DOVE SIAMO SEMPRE STATI. MA FORSE ORA STO ESAGERANDO E TENGO IL MICROFONO TROPPO IN MANO. POI MAGARI PENSATE CHE LO VOGLIO TUTTO PER ME. IO… IO, CHE MI VERGOGNO COSI’ TANTO CHE NON ALZO LO SGUARDO. PERO’ MI SIETE SIMPATICI, E SAPETE FORSE…



TUM TUM TUM
EMH EMH


-Il coniglio per una volta ne fa una buona. Ha interrotto quel logorroico del paggetto. E chi l’avrebbe detto che aveva una lingua tanto lunga? Ora mi sa che inizia veramente-

Grazie ad un perfetto gioco di luci, una bimba si materializzò sul palco. Aveva talmente tanto pizzo da ricoprire tutti i vestiti da sposa dell’intera contea di Nottingham.
Ma non era sola. Portava con sé un piccolo flauto di legno che suonava con garbata armonia. Dai lunghi boccoli color del grano maturo spuntavano ad ogni nota farfalle di un blu acceso, che sorvolavano con le loro ali apparentemente fragili il palco per poi scomparire in una bolla di sapone…
Ma non è finita qua: la bimba si mise a danzare scalza, con le punte dei piedi concentrate in un unico sforzo di tensione muscolare. Gli sguardi dell’intero pubblico compivano piroette nel seguire i movimenti aggraziati della bimba, che sembrava uscita da fontane seicentesche adornate di putti angelici.
La sua grazia non era solo nei movimenti del corpo, ma anche in quella delle sue sottili corde vocali, che le regalavano ad ogni emissione di suono, una voce delicata e soave, che riscaldava gli animi intorpiditi del pubblico certamente ristorato da quella dolce presenza.



Come tutte le favole e le fiabe ascoltate
In tutte la bella, la strega, e le fate,
La mela, il coniglio, la zucca, le briciole di pane
Il procione, la lampada, ed il cane.
Che dire poi delle bacchette, dei vestiti e dei castelli,
dove fanciulle stanche vengono tratte in salvo
da principi coraggiosi, impavidi e belli.
Come tutte le favole e le fiabe ascoltate
Pure questa signori ha un inizio, un mezzo e una fine
che servono a voi per essere più buoni, più giusti, più gentili
e guai a voi se ve ne andrete scontenti, o delusi
che qui la morale ha certo mille usi
e guai a voi se ve ne andrete urlando, gridando
che qui l’insegnamento vi sta bussando.
Come tutte le favole e le fiabe ascoltate…
C’ERA UNA VOLTA TANTO TEMPO FA…




PREMESSA

C’era una volta tanto tempo fa un villaggio in mezzo ad un bosco fittissimo, ma sempre illuminato dal sole estivo o dalla bianca neve invernale. Gli abitanti di questo piccolo villaggio erano molto molto grandi ma non incutevano timore, anzi, il loro costante sorriso e la loro bontà li facevano amare da tutti. Proprio per questo non avevano nemici, e non ne avrebbero mai avuti. Unica e sola tragedia in cui amaramente si crogiolavano era la nuda e cruda consapevolezza di diminuire sempre più. Da tanti e numerosi villaggi che erano stati tempo addietro, ora si trovavano riuniti tutti quanti in unico accampamento… Davanti a questa nuova realtà il loro capo villaggio aveva proclamato ufficiale la legge per cui ogni abitante si sarebbe riprocreato in maniera molto più intensiva e velocemente. Non c’era tempo da perdere! Gli scapoli e le nubili erano considerati traditori della patria; i figli dovevano essere svezzati più in fretta; tutto andava seguito in maniera precisa!
Ed è qua che si svolgerà la storia che andrò a raccontarvi.
Ah, dimenticavo: …IL VILLAGGIO IN QUESTIONE è UN VILLAGGIO PANDA.

lunedì 21 aprile 2008

Z di Zorro

Fino a poche settimane fa ignoravo la penna agile e seducente di Isabel Allende.
La mia conoscenza con lei si basava in miei sguardi fuggevoli quando le amiche di mia madre le porgevano libri dalle copertine colorate a pastello leggero che ingiustamente mi facevano pensare ad un esclusivo pubblico di pacati animi femminili.
Zorro è stato un regalo inaspettato e per questo ben voluto da subito.
Presi in mano la comoda edizione economica con il presagio di una lettura a climax ascendente, che alla fine mi avrebbe catturata. Eppure l’incipit per attimi rimase sospeso tra poche aspettative e snobbismo nei confronti di un titolo privo di attrattiva.
Giacché l’eroe protagonista mi appariva nitido nelle proprie definite sfaccettature cavalleresche, e rinchiuso in poche battute cinematografiche di malfatte trasposizioni televisive, rimasi restia davanti ad una storia già conosciuta e di fronte a gesta riciclate da ben più importanti poemi epici.
Le leggende tuttavia, avvolte in uno spesso mistero nebbioso e inafferrabili nei loro segreti velati, seducono da sempre gli uomini, i quali raramente si lasciano scappare l’occasione di rincorrerle.
Se solo avessi fatto più attenzione e avessi abbandonato da subito i miei lacci mentali, avrei immediatamente scorto un sottotitolo in grassetto, posto in basso per sviare i pregiudizi come i miei e per indirizzare i lettori alla giusta interpretazione del libro: Zorro, l’inizio di una leggenda.
Scoprii perciò che si trattava di un romanzo di formazione, tanto illuminante per giovani animi quanto profondo nel toccare temi vecchi come il mondo: l’importanza dell’infanzia e dell’adolescenza nel plasmare la persona.
Figlio del capitano spagnolo Alejandro de la Vega e di Toypurnia, un’india che si era battuta per riscattare il proprio popolo dalla colonizzazione iberica, Diego nasce come fusione tra due animi molto diversi tra loro e per questo complementari. Fin da bambino eredita dal padre il senso dell’onore e dalla madre la volontà di difendere gli oppressi.
Da subito si snoda l’importante tema della diversità che contribuisce non poco alla formazione caratteriale del giovane protagonista. La doppia identità di Diego e Zorro era possibile perché dalla nascita era insito in lui, figlio del colonizzatore spagnolo e dell’indigena sottomessa.
Importante e non secondaria matrice resta l’amicizia, o meglio, la fratellanza che lo unisce a Bernardo, figlio della balia che ha allattato entrambi, gesto che conferisce loro un legame indissolubile di complicità.
C’è uno sfondo storico, essenziale per tessere la trama di colorate date e di avvenimento di singolare importanza. La colonizzazione spagnola accompagna il libro dall’inizio alla fine, con una deviazione nel mezzo quando Diego e Bernardo danno inizio alla propria pubertà salpando con una nave in direzione spagnola. Lo stacco dalla scenografia alto-californiana e l’immersione nel mondo europeo, stravolto dalle conquiste napoleoniche costituisce un passaggio poco scontato e del tutto dipendente dalla formazione del protagonista, che lontano da casa compie un lungo rito di iniziazione che dura pressappoco cinque anni.
L’amore non corrisposto è l’argomento più sentito dal giovane animo turbolento. Diego, trasporta a Barcellona la propria inclinazione passionale, istintiva che rappresenta un tratto aggiuntivo alla sua complessa personalità molteplice. Diego infatti si innamora della figlia del suo ospite, la bellissima Juliana, dagli occhi di gatto, e dalla pelle delicata. Questo viscerale amore platonico lo vede protagonista di gesta eroiche e azioni cavalleresche che poco servono ad attrarre su di sé l’interesse femminile.
C’è un importante e grandioso antagonista, che concorre a maturare il giovane amante e a mettersi più volte in dubbio. Moncada è un ricco e facoltoso ventitreenne innamorato fin da piccolo di Juliana e sempre più determinato ad averla come sposa. Questa costante presenza scomoda darà modo a Diego di trasformarsi mano a mano in Zorro, causando conseguenze tipiche di una doppia identità. Infatti il rapporto Diego-Zorro ruota attorno all’attrazione di Zorro e allo stesso tempo alla paura di non saper dominare questi impulsi eroici.
Zorro tuttavia è un eroe e privo di dubbi quando agisce. Non si può permettere di pensare troppo, nello stesso tempo antepone il proprio ingegno e la propria astuzia davanti al senso dell’onore.
Frase riassuntiva della politica di Zorro è: mai combattere con la rabbia.
L’intraprendenza di Zorro e la sua sete di giustizia sono gli ingredienti di questo eroe tanto acclamato dai sensibili animi femminili, eppure senza maschera e mantello, Diego è un ragazzo con le orecchie a sventola che non sa come fare per conquistare la sua Juliana.
Chiudo il libro soddisfatta di questa amabile lettura di inizio primavera, che mi ha lasciato un dolce retrogusto di lieto fine, accompagnato da una forte ricerca di avventura letteraria.
Non lascio neppure il tempo di ripensare alle pagine lette e prendo in mano un nuovo libro, stando attenta questa volta a non storcere il naso davanti a titoli ingannevoli…

domenica 13 aprile 2008

W

TODAY AND TOMORROW WE CAN CHANGE!

We Will Win With Walter

lunedì 7 aprile 2008

al cor gentile rempaira sempre amore

NUOVO MESSAGGIO RICEVUTO:ciao cm va k dc d belo

balia:"signorina, ma voi siete il centro dei desideri di un intrepido cuore!"

signorina:"Io...certo che no! Come fate a dirlo balia? Ritengo al contrario di essere tanto più distante dal centro del cuore, che mi pare di toccarne la spalla o il braccio!"

balia:"Suvvia bambina, come fate a scherzare in tali circostanze! Carta canta. La corrispondenza è ciò di più vicino a due cuori! Il vostro mittente vi sta iniziando alla più nobile forma di amor cortese. Ora sta a voi accogliere l'invito!".

signorina:"Amor cortese dite? Ma balia, questo è un semplice biglietto smangiucchiato ai bordi. Per niente curato. Non vedete inoltre le lettere tutte attaccate, gli errori morfologici... Gli errori morfologici però li vedete, non è vero? Niente enfasi. Non una interiezione. Non colgo nulla di cortese: forse, cara balia, se il suddetto giovane si fosse avvicinato, perlomeno. Avesse avuto l'ardire di trasportare ciò che egli ha scritto in tale fretta e volgarità letteraria e l'avesse pronunciato a parole, avrei apprezzato di più. Ciò che è scritto ha più valore di ciò che è detto, colui che non sa esprimere il proprio sentimento a voce, è tanto più incapace di scriverlo. A mio parere, ciò che voi chiamate centro dei desideri non è altro che una ridotta, mal espressa, grezza trasposizione di un eventuale interesse".

balia:"Sciocca insolente! Imparaste meno a far muovere la lingua e faceste muovere la piuma, avreste prodotto già una missiva di risposta, con tanto di bollo laccato! Alla vostra inesperta età, non dovete certo aspirare a chissà quali felicità astratte, a chissà quale coinvolgimento affettivo! "ciao cm va k m dc di belo" è più di quanto potreste ottenere oggigiorno! Ora ascoltate me, che vi ho cresciuta, e che mi trovo senza fede al dito: accettate ciò che di buono può offrirvi oggi il mondo. Respingete piuttosto la vostra settica idea d'amore. Leggete troppo, ecco ciò che vi è di sbagliato in voi! Le cose scritte bruciando appassiscono, come la vostra bellezza, ricordatevelo in tempo!".

signorina: "Niente affatto! Se credete che sia una giovane che si lascia travolgere da una frase insignificante come questa, vi sbagliate! E' altro a cui anelo. Mi immagino un giorno seduta sul letto d'infanzia, ad aprire il cassetto di ebano di fianco alle coperte, e scoprire un'alta raccolta di epistole impolverate. Mi vedo rileggere fiammanti versi settenari, interrotti da squarci di prosa autentica che un dì lontano ricevetti da giovani sinceri e risoluti.
Che male c'è a voler aspettare il momento propizio, e dedicare le proprie più tenere parole solamente a chi sarà in grado di raggiungere il proprio cuore sigillato e aprirlo con il suo stesso cuore? Oh, mia adorata balia, non piangete per ciò che udite, altro è il mio scopo di vita, che essere sulla spalla di un giovane privo di sogni.
Nobile invece è chi sa comporre nelle sue lettere, intere frasi di proprio ingegno, veri parti poetici, riscaldati da aggettivi colorati, decorati da sapiente umorismo scelto, privi di alcuna invadenza, ma innalzati nella propria sincerità da uno stile curato, e una forma pulita. Il tutto reso più amabile da un'allegra spontaneità...
...Ora mi crederete una giovane sciocca, più di quanto non lo sia, ma ritengo che la perfezione si ottenga in un modo del tutto particolare in circostanze di cuore. Amor cortese avete detto. Ecco, perfetto amor cortese è di colui che regala alle sue serenate letterarie una citazione d'autore. Priva di virgolette, sospesa tra il mittente e la destinataria, la quale non solo avrà il dovere di cogliere la citazione, ma sforzarsi a cercarne la fonte. Tentare e ricercare soluzioni. Non darsi per vinta. E tanto più sarà ardito l'enigma, quanto più forte sarà la base di un legame tra i due interlocutori...
Oh cielo, che bel dire il mio! Confidare alla balia i più reconditi desideri di una giovane amante.
Ma ora dove andranno i sogni miei? Sbiaditi dal tempo autunnale e posati su insicure spalle e tremanti bracci!
Suvvia, fatemi la cortesia di passarmi il calamaio. Grazie.

RE: ciao cm va k m dc di belo
ttt bene grazzie. te k fai ?

venerdì 4 aprile 2008

Nominativo adulescens: ultimo capitolo

Il suono metallico delle undici e zero zero annunciava con insistenza la fine della pausa pipì per alcuni, pausa sigaretta per altri, pausa macchinetta per molti.
Tutti in un modo o in un altro occupavano quei seicento secondi di stacco nel miglior modo possibile, uscendo perlopiù dalle asmatiche pareti di cartone, ridando vita alle gambe che si risvegliavano con cordiali scricchiolamenti di ossa.
L’intervallo è svago.
Niente di più, niente di meno.
Facile e sicuro come ripetere us, a, um.
Come un sistematico, utile, inconfondibile aggettivo della prima classe.
E come ogni sistematico, utile, inconfondibile aggettivo della prima classe anche l’intervallo ha le sue accezioni, i propri cavilli nascosti sotto ingannevoli asterischi.
Ed ecco che in fondo al corridoio del secondo piano apparve l’accezione che confuta ogni regola: una desinenza ibrida sì debole da non potersi imporre in una nuova dogmatica legge.
In questo caso si trattava di una desinenza umana di quarantatre chili e quattrocentosessanta grammi moltiplicati per un metro e sessantasei centimetri.
In piedi perché le ossa si comprimevano incollate sulla squadrata sedia gialla.
In silenzio perché a gridare ci pensava il suo lento battito cardiaco.
In incognito, irriconoscibile dentro un nuovo corpo instabile.
In-adatta a comunicare col mondo, in-consapevole ragazza sottovuoto che misurava la vita in tabelle ipocaloriche, in-somma, un vero schifo.
E lo schifo è per tutti, lo assicurava pure lei, che non sapeva da che parte cominciare per raccontare com’era accaduto, e uno schifo per la sorella con cui viveva che si sfogava in philip morris e muffin al cioccolato.
Ma quei dieci minuti di stasi emotiva erano finiti e Alice trasferì con piacevole sofferenza personale i suoi quarantatre chili in classe.
Non distinse l’odore malsano di corpi ammassati, men che meno riconobbe il profumo di paprika attaccata alle dita dei compagni.
Il professore entrò ma la sua lezione era già iniziata in fondo alle scale, dove era solito parlare da solo. La gente mormorò lamentele sottobanco ma la desinenza Alice sorrideva dentro e si rilassò facendo la sua cosa preferita: seguire la lezione.
Quel giorno si instaurarono molti argomenti subordinati dipendenti tutti dalla principale Equazione.
Le derivate coordinate non erano altro che i vari alunni che mesti si davano il cambio alla lavagna, dando vita ad un triste scambio di testimoni, finché non impugnò il pennarello la scheletrica mano di Alice.
Alice lo sapeva. Alice sapeva tutto. Almeno quello che c’era scritto da pagina 1 a 167, compreso l’indice. Alice sapeva e finì in quattro e quattr’otto.
Posò il pennarello sotto gli occhi dell’insegnante e tornò a rallentatore al suo posto, guardando con sufficienza i coetanei, incrociando un minaccioso sguardo con l’imbattuto cervellone della classe, autoconvincendosi di un otto sul registro e proiettandosi ai prossimi campionati mondiali di matematica dove avrebbe presieduto come giudice indiscusso.
Altro che castelli di sabbia i suoi, di cemento armato piuttosto.
A tutti gli adulescentes capita di sognare a occhi aperti, mormorare parole non colte, sorridendo dentro per fantasiosi progetti futuri.
Con Alice tuttavia si cadeva in enormi bolle di colla vinilica, in cui realtà e sogno diventavano tutt’uno: nel mondo di Alice non si intravedevano né conigli né regine di cuori. C’era solo un faro luminoso posto sopra di lei e un tappeto rosso che rotolava sotto i propri piedi, seguendola in qualsiasi sentiero avesse intrapreso.
Nessuno in verità poteva sapere cosa producesse quella sostanza gelatinosa che era il suo cervello: quali i meccanismi, quali le matrici che generavano tanta confusione, dove iniziasse la consapevolezza della vita intorno e se esistevano cassetti pieni di ricordi di pranzi all’aperto e risate familiari.
I motivi della sua autodistruzione rimasero perciò misteriosi sotto una pesante coltre di nebbia, e titanici punti di domanda.
Svariati professoroni dal suffisso psic e dal lungo camice intatto non avevano risolto il problema.
Centinaia di abbracci e baci, migliaia di pianti e infinite parole non riuscivano a colmare il suo male di vivere.
Alice aveva rischiato più volte di perdere la propria desinenza provocando elisioni irreparabili, cavandosela per piccolissime particelle di vita che pian piano si disfacevano in polvere.
Alice scoprì a sua spese di essere un’accezione della vita, così debole da non potersi imporre in un’altra vita più bella.
E tutti gli altri umani che seguivano ordinati la declinazione us, a, um non riuscivano a spiegarle come rimettersi in carreggiata con loro.
Come far coordinare un risoluto aggettivo della prima classe con un’anarchica accezione? Si doveva ripartire da capo.
Si sarebbe dovuto risalire alle origini del suffisso, decifrarne gli influssi etimologici, addentrarsi nella storia personale di quella desinenza che sgarrava ai flussi logici della declinatio.
Il mondo intanto continuava le sue albe e i suoi tramonti.
Il mondo per primo seguiva il più grande us, a, um e impartiva a tutti il proprio veloce ritmo di marcia.
Alice sarebbe rimasta tutta la vita a ripetere la prima declinazione, mentre i coetanei attorno già finivano di recitare nominativo adulescens.