venerdì 4 aprile 2008

Nominativo adulescens: ultimo capitolo

Il suono metallico delle undici e zero zero annunciava con insistenza la fine della pausa pipì per alcuni, pausa sigaretta per altri, pausa macchinetta per molti.
Tutti in un modo o in un altro occupavano quei seicento secondi di stacco nel miglior modo possibile, uscendo perlopiù dalle asmatiche pareti di cartone, ridando vita alle gambe che si risvegliavano con cordiali scricchiolamenti di ossa.
L’intervallo è svago.
Niente di più, niente di meno.
Facile e sicuro come ripetere us, a, um.
Come un sistematico, utile, inconfondibile aggettivo della prima classe.
E come ogni sistematico, utile, inconfondibile aggettivo della prima classe anche l’intervallo ha le sue accezioni, i propri cavilli nascosti sotto ingannevoli asterischi.
Ed ecco che in fondo al corridoio del secondo piano apparve l’accezione che confuta ogni regola: una desinenza ibrida sì debole da non potersi imporre in una nuova dogmatica legge.
In questo caso si trattava di una desinenza umana di quarantatre chili e quattrocentosessanta grammi moltiplicati per un metro e sessantasei centimetri.
In piedi perché le ossa si comprimevano incollate sulla squadrata sedia gialla.
In silenzio perché a gridare ci pensava il suo lento battito cardiaco.
In incognito, irriconoscibile dentro un nuovo corpo instabile.
In-adatta a comunicare col mondo, in-consapevole ragazza sottovuoto che misurava la vita in tabelle ipocaloriche, in-somma, un vero schifo.
E lo schifo è per tutti, lo assicurava pure lei, che non sapeva da che parte cominciare per raccontare com’era accaduto, e uno schifo per la sorella con cui viveva che si sfogava in philip morris e muffin al cioccolato.
Ma quei dieci minuti di stasi emotiva erano finiti e Alice trasferì con piacevole sofferenza personale i suoi quarantatre chili in classe.
Non distinse l’odore malsano di corpi ammassati, men che meno riconobbe il profumo di paprika attaccata alle dita dei compagni.
Il professore entrò ma la sua lezione era già iniziata in fondo alle scale, dove era solito parlare da solo. La gente mormorò lamentele sottobanco ma la desinenza Alice sorrideva dentro e si rilassò facendo la sua cosa preferita: seguire la lezione.
Quel giorno si instaurarono molti argomenti subordinati dipendenti tutti dalla principale Equazione.
Le derivate coordinate non erano altro che i vari alunni che mesti si davano il cambio alla lavagna, dando vita ad un triste scambio di testimoni, finché non impugnò il pennarello la scheletrica mano di Alice.
Alice lo sapeva. Alice sapeva tutto. Almeno quello che c’era scritto da pagina 1 a 167, compreso l’indice. Alice sapeva e finì in quattro e quattr’otto.
Posò il pennarello sotto gli occhi dell’insegnante e tornò a rallentatore al suo posto, guardando con sufficienza i coetanei, incrociando un minaccioso sguardo con l’imbattuto cervellone della classe, autoconvincendosi di un otto sul registro e proiettandosi ai prossimi campionati mondiali di matematica dove avrebbe presieduto come giudice indiscusso.
Altro che castelli di sabbia i suoi, di cemento armato piuttosto.
A tutti gli adulescentes capita di sognare a occhi aperti, mormorare parole non colte, sorridendo dentro per fantasiosi progetti futuri.
Con Alice tuttavia si cadeva in enormi bolle di colla vinilica, in cui realtà e sogno diventavano tutt’uno: nel mondo di Alice non si intravedevano né conigli né regine di cuori. C’era solo un faro luminoso posto sopra di lei e un tappeto rosso che rotolava sotto i propri piedi, seguendola in qualsiasi sentiero avesse intrapreso.
Nessuno in verità poteva sapere cosa producesse quella sostanza gelatinosa che era il suo cervello: quali i meccanismi, quali le matrici che generavano tanta confusione, dove iniziasse la consapevolezza della vita intorno e se esistevano cassetti pieni di ricordi di pranzi all’aperto e risate familiari.
I motivi della sua autodistruzione rimasero perciò misteriosi sotto una pesante coltre di nebbia, e titanici punti di domanda.
Svariati professoroni dal suffisso psic e dal lungo camice intatto non avevano risolto il problema.
Centinaia di abbracci e baci, migliaia di pianti e infinite parole non riuscivano a colmare il suo male di vivere.
Alice aveva rischiato più volte di perdere la propria desinenza provocando elisioni irreparabili, cavandosela per piccolissime particelle di vita che pian piano si disfacevano in polvere.
Alice scoprì a sua spese di essere un’accezione della vita, così debole da non potersi imporre in un’altra vita più bella.
E tutti gli altri umani che seguivano ordinati la declinazione us, a, um non riuscivano a spiegarle come rimettersi in carreggiata con loro.
Come far coordinare un risoluto aggettivo della prima classe con un’anarchica accezione? Si doveva ripartire da capo.
Si sarebbe dovuto risalire alle origini del suffisso, decifrarne gli influssi etimologici, addentrarsi nella storia personale di quella desinenza che sgarrava ai flussi logici della declinatio.
Il mondo intanto continuava le sue albe e i suoi tramonti.
Il mondo per primo seguiva il più grande us, a, um e impartiva a tutti il proprio veloce ritmo di marcia.
Alice sarebbe rimasta tutta la vita a ripetere la prima declinazione, mentre i coetanei attorno già finivano di recitare nominativo adulescens.