Il pullman blu delle 12.54 era stato puntuale. Dopo pochi minuti di attesa Ce era salita sull’autobus che portava sulla testata la scritta Angera.
I suoi occhi provarono piacere nella immediata conferma di intravedere ancora una volta la stessa gente. La signora anziana con la borsetta nera, le scarpe nere e il cappellino nero, sedeva nella seconda fila destra verso il finestrino. Era sempre attaccata alla sua borsetta così come era attaccata alla sua postura statica. Il mento rivolto all’insù. La schiena completamente attaccata al sedile. L’espressione eterea, di chi ha già visto l’aldilà ed è sicuro della propria futura postazione in cielo.
Il ragazzino delle medie coccolato dal panino enorme che azzannava con profonda devozione, facendo attenzione a non sprecarne neanche una briciola, ma sicuramente pronto a cederne un pezzo a chi gliel’avesse chiesto. I suoi capelli raramente vedevano la spazzola al mattino, ma la camicia sempre stirata addosso faceva pensare che la sua mamma comunque tentava invano di pettinarlo.
Dietro di lui, con aria profondamente assonnata e con occhi turgidi stava un ragazzo dal viso poco curato, come i suoi vestiti sempre sporchi di calce. Quando timbrava il biglietto di convalida mostrava unghie nere e rovinate, e attorno le pellicine di pelle rossa erano palesi di un carattere nervoso, irrequieto.
Era difficile stabilirne con certezza la nazionalità, ma altrettanto facile era immaginare che il fiore dei suoi anni era sciupato troppo presto, o forse non era mai sbocciato.
Per il resto il pullman era vuoto, e ciò consolava Ce, così abituata ai suoi fissi amici di viaggio, che avrebbe poco accettato l’arrivo di qualcun altro.
Il suo pranzo frugale del venerdì consisteva in un pezzo di focaccia e mela. Durante il tragitto mangiava lentamente, così assorta ad osservare i compagni seduti.
Ce stava apposta in fondo. In una comoda posizione strategica che le permetteva di giocare alla psicologa.
Non aveva mai iniziato un vero discorso con nessuno dei presenti. Se non una volta, quando la signora della seconda fila le aveva chiesto un’informazione sugli orari festivi.
E in realtà non le era mai sfiorato il pensiero di conoscerli. Avendo da tempo delineato i profili di ciascuno, compreso l’autista, e avendoci anche ricamato sopra le loro vite aggiungendo di volta in volta particolari, Ce temeva attraverso anche una semplice conversazione di smontare la propria fervida immaginazione. Nel mistero accresce l’interesse, si sa.
Alla fermata di Casciago scendeva il ragazzino, che lasciava al suo passaggio profumo di pancetta.
A Luvinate si fermava la signora anziana. E una fermata dopo toccava a Ce.
Le porte si aprirono appena il veicolo si fermò. Il semaforo avanti cinque metri aveva scattato il rosso. La ragazza voltò il viso alla sua sinistra, verso la piazza della chiesa come al solito deserta, con l’unica compagnia di un bel pino centenario da poco regolato. Si coprì per quanto poteva il collo con la sciarpa, e si diresse dall’altra parte del paese.
Visto dai vetri sporchi del pullman, Barasso può apparire cupa, morta, con l’unica attrattiva dei boschi semi-abbandonati al suo interno. Una tappa da superare, e mai una meta.
Il passo svelto permise di arrivare all’istante al cimitero, col viso quasi completamente rivolto all’ingiù. Che senso avrebbe avuto osservare il paesaggio? Era giornata di vento, e la ragazza conosceva troppo bene quelle strade per potersi permettere inutilmente un raffreddore. A memoria le conosceva.
Dalla fermata alla sua destra, stava la casa rosa della Rosa, con fuori le rosa rosa. Abitava sola la poverina, il marito di cui nessuno più ricordava il nome, l’aveva lasciata quarant’anni prima, con un figlio in pancia, e la ricevuta dell’osteria della sera prima. Nessuno seppe mai come fece a tirare avanti sempre chiusa in casa. Il bambino alle elementari, vestito sempre di tutto punto, portava a sua madre i saluti della gente che incontrava. Nessuno mai si spiegò come fecero a tirare avanti con la Rosa sempre in casa, e anche come mai la pancia della gravidanza non le era mai andata via… Sempre dritti, si incontrava l’ingombrante presenza di un prefabbricato anni ’90, con posteggio annesso, pagine pubblicitarie sulle finestre, e scritte di grande impatto commerciale. Subito si gira a sinistra, piccola salita, spazio di due macchine una dietro l’altra, e cancello in ferrato munito di suoni e colori per visitatori in determinate fasce orarie.
A quell’ora del venerdì c’era solo una signora anziana. Viveva a Luvinate e dopo pranzo usciva con lo stesso mazzo di fiori diretta sempre al cimitero di Barasso. Come ogni volta, Ce salutava ma la signora con la cataratta non rispondeva al cenno. La ragazza avvolta nel cappotto attraversava le tombe all’aperto, calpestando la ghiaia che emetteva piacevoli suoni familiari. Terzultima tomba del porticato, in basso sotto tutti stava la foto ricordo, il nome e la data. Uniche testimonianze di una vita ormai trascorsa. Niente frasi ad effetto. Solo un lumino di plastica spento, e la croce inchiodata nel marmo. Scomoda posizione. La ragazza aveva obiettato più volte che non le piaceva quell’assurda e scomoda collocazione, ma l’inflazione dei morti a Barasso non concedeva scelta al consumatore pretenzioso. E chi non lo è pretenzioso quando si tratta della propria morte?
Posava margherite gialle per terra. Toglieva le piante morte dal vaso di rame. Avvicinava a sé l’annaffiatoio blu. Compiva gesti già visti da parenti distratti. Dominava la sua voglia di gridare. Trasmetteva pensieri e ricordi ad un nonno incapace di ascoltare. Finiva il lavoro con grande abilità. Puliva con una scopa di saggina le impronte della sua presenza. Lavava la foto, il nome e la data. Regalava un sorriso ferito. Girava le spalle e rifugiava nella sciarpa lacrime per una tomba posta troppo in basso. Malediva l’inflazione dei morti e tornava indietro per una via che la riportava in un mondo in cui il solo pensiero è la vita.